“Ma come fai ad ascoltare tutto ciò che i pazienti ti dicono e non portarti a casa tutte le emozioni che hai provato?” Oppure: “ma come fai a non stare male e a sopportare le storie brutte che ascolti?” Sono domande che mi rivolgono spesso e che a volte non aspettano che io risponda, perché continuano così: “Hai imparato a distaccarti e a tenere le distanze, di sicuro fai così”. Posso dire che è molto difficile capire cosa si prova a fare un lavoro che non sia il proprio, ad esempio, per me è un mistero come possa un commercialista a sopravvivere ogni giorno a mille calcoli. Così, quando non si sa per esperienza personale, si va per ipotesi.
Si tratta di un meccanismo naturale, noi tutti tendiamo a dare delle spiegazioni per sopperire a informazioni che ci mancano e per farlo usiamo le ipotesi più plausibili o, laddove non è possibile, la fantasia. Non è strano, per chi non è uno psicologo, pensare che per lavorare bene e tornare intera a casa, io lavori con distacco. Ne avevo parlato giusto un anno fa, nella falsa credenza del ghiacciolo. Chiaramente è un tema che mi appassiona molto, ma mi piace anche condividere i processi cognitivi e affettivi che giocano un ruolo nello svolgimento della mia professione. Ecco così, che a sentirmi rivolgere questa domanda, mi è tornata voglia di parlarne.
Mi è venuta alla mente un’immagine molto bella disegnata da Ilaria Urbinati, che spesso disegna tavole legate al mondo della psicoterapia. La tavola si intitola “The therapy effect” ed è la sintesi di quello che succede in psicoterapia. Psicologo e paziente sono sullo stesso piano, uno di fronte all’altro, in un incontro profondo. Il terapeuta è presente e assolutamente non distaccato. Il suo compito è di offrire il giusto contenitore per la nuvola oscura che pesa su quella precisa persona.
Non c’è distacco, ma il giusto coinvolgimento, ovvero l’essere il miglior contenitore possibile. Il fine è poter restituire in una forma migliore ciò che viene percepito come pesante, disturbante o problematico. Ed è nella restituzione che avviene la maggior parte del lavoro: io non mi porto a casa emozioni che non sono mie. Chi ho di fronte, invece, può riprendere indietro quelle emozioni in una forma migliore.
Così, se dovessi ripondere oggi alla domanda “ma come fai?”, risponderei semplicemente che cerco di essere il miglior innaffiatoio possibile.