La paura della morte (e altre questioni non trascurabili)

26 Feb 2021 | Psicologia, Psicologo Torino, Psicologo Volvera

Questo titolo è molto preciso: senza mezzi termini spiega di cosa andrò a parlare. Capisco che possa spaventare, ma ho scelto accuratamente le parole per sottolineare, sin da subito, quanto sia importante chiamare le cose con il proprio nome. Il titolo non è nuovo: l’ho usato nel gennaio 2020 per un incontro al Centro Anziani di Gerbole di Volvera. Questo articolo è il riassunto del mio intervento, pensato per chi non c’era ma avrebbe voluto partecipare, ma anche per chi ha piacere di ripensare a quello che ci siamo detti. Scrivo in un momento in cui è impensabile organizzare incontri pubblici come quello, e la parola scritta può aiutare a colmare, anche se solo in parte, quel vuoto.

Partiamo tutti dalle stesse condizioni

Di fronte alla morte e a tutti i discorsi che possiamo fare a riguardo, partiamo tutti dalle stesse condizioni, ovvero, nessuno di noi sa qualcosa più degli altri. In un modo o nell’altro, tutti abbiamo paura di morire o della morte, anche quando ci troviamo a dire frasi come “io non ho paura di morire, ho più paura di soffrire”. Quindi, anche se ho proposto questo tema, inevitabilmente non posso saperne più di voi. Il cuore di ciò che voglio dire è che parlare di morte equivale a parlare di vita e che, anche se sembra paradossale, parlare di morte ci può aiutare a vivere meglio. Yalom (il mio autore del cuore), lo dice in modo chiaro e sintetico:

“l’idea della morte ci salva”

Poterci confrontare sulla nostra finitezza ci aiuta a vivere in modo più autentico e ci permette di sviluppare importanti e profonde connessioni con gli altri. Una vita autentica e le connessioni con persone positive per la nostra vita sono due aspetti centrali in questo discorso, che ho scelto di evidenziare per evitare che vengano sottovalutati. Teniamoli a mente perché saranno il focus di questo articolo.

Il tabù della morte

Mentre pensavo al titolo per l’incontro, e ora, per questo articolo, l’unica certezza che mi guidava era che la parola morte dovesse comparire. Non volevo metafore, giri di parole o il posto in secondo piano nel sottotitolo: chiamare le cose con il proprio nome è importante, abbassa l’ansia di dover trovare soluzioni creative per non nominare ciò di cui stiamo parlando e ci assicura che stiamo parlando dell’argomento in questione, evitando fraintendimenti. La morte è un tabù e i tabù nascondono e reprimono, ma non possono cancellare le cose. Spesso infatti, peggiorano la situazione, aumentando la paura.

I tabù non sono tutti uguali, alcuni sono più grandi di altri. La morte è il tema più universale che si possa pensare e incredibilmente, uno dei più grandi tabù. Cosa ci fa dire che stiamo parlando di tabù? Pensate ad esempio alle volte a in cui siete entrati in contatto con la morte: che si trattasse di una persona molto vicina, di un animale domestico, di un bambino mai nato. Quante volte vi siete sentiti liberi di parlarne? Di dire come vi sentivate? Quante volte invece avete sentito dire “non piangere”, “col tempo sarà più facile”, oppure avete visto le persone cambiare discorso? Se state annuendo è perché la morte è ancora un grande tabù.

Dare spazio ai discorsi sulla morte è un passo per andare oltre al tabù, per poter dar voce alle emozioni e ai pensieri che ci stanno attorno. Se se ne parla, sarà più facile affrontarli, se si nascondono, continueranno a spaventarci senza che ci possiamo fare nulla.

Vita e morte, morte e vita

La vita e la morte sono interdipendenti, vuol dire che uno non può esistere senza l’altro. In modo semplice, la morte è quando non c’è più vita. Possiamo immaginare l’esempio della figura e dello sfondo: non posso percepire una figura se non c’è uno sfondo che stacca il contorno così che io possa vederla. Quando dicevo che parlare di morte vuol dire necessariamente parlare di vita, intendevo proprio questo: non possiamo fare a meno dell’altra faccia della medaglia.

C’è anche un altro aspetto: l’ambivalenza. La morte è un concetto che divide: di fatto rappresenta un prima e un dopo, ma anche le reazioni delle persone sono molto diverse. Mentre preparavo l’incontro e, ora, mentre scrivo questo articolo, so che mi sarei trovata di fronte ad una spaccatura: chi scappa a gambe levate e chi si ferma ad ascoltare. La cosa più interessante è che le due cose possono coesistere nella stessa persona nello stesso momento. Quindi non sentitevi strani se mentre leggete avete sia voglia di continuare, sia voglia di chiudere e fare altro.

Cosa ci può venire in aiuto di fronte all’ambivalenza? Il parlar chiaro: ad esempio chiamare le cose con il proprio nome e accettare la comunicazione di morte. Quante volte avete sentito o, avete fatto, giri di parole o metafore più o meno complicate per parlare di morte o di malattie inguaribili? Ecco, questo è un piccolo esempio di di fuga, di come ci capita di aggirare ciò che ci fa paura. Questo capita molto spesso nelle comunicazioni di morte ai bambini, spesso negate, omesse o raccontate in modo non comprensibile: “la nonna è partita per un lungo viaggio”, “il papà è volato via”. Immaginate un bambino che deve cercare di capire come mai tutti hanno facce tristi, si comportano in modo strano, si smette di parlare del defunto e tutto cambia. Un “lungo viaggio” o “il volare via ” non spiegano molto bene quello che sta succedendo.

Accettare

Non sono i bambini a non voler parlare di morte, così come spesso non lo sono i malati terminali, siamo noi: partecipare alla morte degli altri (vicini e non), ci mette a confronto non solo con il dolore della perdita, ma anche con la nostra caducità. Accettare che la morte esiste, che ha un nome e che in qualche modo ci può toccare, è il primo passo per andare oltre l’ambivalenza, ma soprattutto per prenderci cura della vita. Tutti abbiamo il desiderio di sopravvivere e il terrore di non esistere più. Si tratta di qualcosa che ci accomuna ma che di solito non condividiamo.

Ognuno viene a patti con la propria morte nei modi più differenti, seguendo una scala che va dai modi più consapevoli a quelli più inconsci. C’è chi si mette alla prova in imprese ad alto rischio tutti i giorni, chi salva vite, chi accumula potere, ma quasi nessuno sarà consapevole di quanto le proprie azioni siano guidate dalla paura della fine. Però, anche in questo caso, la paura della morte ha un grande peso su come si vive la vita: si vive per non pensare o per esorcizzare la morte.

La vita si fa più piccola quando la morte è negata: quello che possiamo fare allora, è un’opera di integrazione della paura della morte. Questo ci permetterà di vivere meglio. Cosa vuol dire integrare? Vuol dire trovare un posto dentro di noi per accettare e dare significato a questa paura. Alcune spiegazioni possono essere utili, ad esempio le parole di Epicuro che dice “perché temere la morte se non la possiamo percepire?” La sua idea è che dove sono io non c’è la morte.. Questa considerazione ci può aiutare a livello cognitivo, ma se parliamo di paura quella resta, non è interessata a questi pensieri. La paura non ha bisogno di pensieri, ha bisogno di comprensione e accettazione.

Il senso della vita

Perché questa paura non sente ragioni? Perché abbiamo paura di scomparire, di perdere la nostra identità personale o perché non abbiamo ancora trovato il senso della vita. Quando parliamo di paura della morte, molto probabilmente tocchiamo questi argomenti. Direi che sono abbastanza impegnativi da non essere scalfiti da un ragionamento, che sì, ha un senso, ma non può competere con la potenza emotiva causata dalla paura di scomparire o di non avere un senso.

Solitamente non compare a colazione il significato della vita, ma è anche vero che non ci pensiamo tutti i giorni. Paradossalmente è più facile occuparsi di non pensare alla paura della morte, che cercare il nostro personale senso della vita. Un paradosso ci può essere molto utile: proviamo a pensare che la morte non esista e che possiamo vivere la nostra vita per l’eternità. Per essere più precisi, proviamo ad immaginare un eterno ritorno, in cui la nostra vita si ripete così com’è per sempre. Che effetto fa?

Molto probabilmente tutti vorremmo poter modificare qualcosa, magari qualcosa che è successo e che ci ha fatto soffrire. Immaginare la nostra vita che si ripete in eterno, ci mette di fronte anche alla consapevolezza di come si sta realmente vivendo e che di questo abbiamo responsabilità.

La responsabilità

La responsabilità ha che fare con il potere: in questo caso stiamo parlando della responsabilità, ma anche del potere che abbiamo nei confronti della nostra vita. Possiamo prendere come esempio “A Christmas Carol” di Dickens: il protagonista, il tirchio e avaro Scrooge, viene spaventato a morte dagli Spiriti del Natale, che altro non fanno se non fargli vedere come ha vissuto e come sta vivendo. L’impatto è così devastante che Scrooge non riesce a darsi pace e chiede disperatamente la grazia. Ma gli Spiriti del Natale non possono fare nulla a riguardo, non è un loro compito, e Scrooge capisce che solo lui ha il potere e la responsabilità della sua vita.

In psicologia si parla di locus of control, che definisce dove percepiamo il potere, dentro o fuori di noi. Il locus of control è esterno se pensiamo che la causa del vivere bene è situata al di fuori di noi. In questo modo, non potremmo avere nessun cambiamento positivo, perché sentiamo di non avere né potere né controllo. Ma se riusciamo a vedere la nostra responsabilità sulla vita, acquistiamo il potere di agire e di dare un significato alla nostra esistenza. Lo definiamo locus of control interno, perché sentiamo che sta a noi, che non siamo in balia dell’universo, ma ci sono cose su cui possiamo agire.

Certo, non possiamo controllare tutto, ma possiamo agire su come viviamo la vita: la qualità della vita è determinata da come viviamo le esperienze e non dalle esperienze in sé.

Il significato e i cerchi nell’acqua

Il modo che abbiamo di vivere le esperienze ha a che fare con il significato: per noi esseri umani, è importante dare significato alle cose, soprattutto alla nostra vita. Ancora una volta trovo una buona occasione per citare il lavoro di Yalom, che parla di cerchi nell’acqua, un’immagine che ci aiuta a visualizzare il nostro personale senso della vita. I cerchi nell’acqua di cui parla, sono quelli che si formano quando gettiamo una pietra in un lago: una pietra anche molto piccola, genera cerchi concentrici sempre più grandi, che continuano a formarsi anche dopo che la pietra è scomparsa.

Noi siamo quella pietra e, ogni nostra azione, influenza le persone e l’ambiente in cui viviamo. La domanda da fare è: cosa vogliamo che di noi passi anche dopo di noi? Cosa vogliamo trasmettere, quali valori, idee? Cosa vogliamo che si propaghi dopo di noi come un cerchio nell’acqua?

I cerchi nell’acqua assumono una valenza maggiore all’interno di una relazione intima, non per forza compagno o compagna di vita, genitore e figlio, ma qualsiasi relazione autentica e significativa. Sono relazioni in cui sentiamo di dare o di ricevere qualcosa di importante e pieno di significato, in cui possiamo percepire come la nostra vita è stata di beneficio per qualcun altro, o viceversa, come un altro è stato importante per noi.

Nella pratica

Prendetevi un momento prima di finire questo articolo: sedetevi comodi e lasciate che salga alla mente una vostra caratteristica, qualcosa di voi a cui tenete. Può essere un valore, un modo di fare, qualcosa che vi fa essere fieri. Pensate se l’avete ereditata o appresa da qualcuno. Molto probabilmente è qualcuno di importante per la vostra vita. Ora prendetevi ancora qualche momento per pensare se state facendo diventare quella cosa dei cerchi nell’acqua.

Se vi siete emozionati, se avete sentito salire un sorriso o scendere una lacrima è perché avete vissuto con autenticità questi attimi. Se il ricordo della persona che vi ha passato i significati che considerate importanti per voi vi ha toccato, pensate a quanto potete continuare a propagare quei cerchi nell’acqua. Nelle connessioni profonde con gli altri possiamo mitigare il dolore della nostra caducità, vivendo in modo autentico e restando a contatto con ciò che desideriamo diventi il nostro cerchio nell’acqua.

Sì, è difficile, ora nel 2021 c’è la distanza, c’è la paura, c’è l’impossibilità di incontrarsi dal vivo. Sono tempi duri che ci mettono tutti quanti ancora più a contatto con la paura della morte e della fine. Ma anche qui, partiamo tutti dalle stesse condizioni e potremmo ripartire dall’inizio di questo articolo. Il mio cerchio nell’acqua che voglio lasciare oggi è che di paura e di morte si può parlare e farlo può portare ad incontrare in modo profondo molte persone.

 

Bibliografia:
  • Yalom I. “Fissando il sole”
  • Hennezel M. “La morte amica”
  • “Kubler Ross E. “La morte e il morire”

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