In psicoterapia, emerge spesso una questione: cosa dire e a chi, ciò che si fa in seduta. Alle volte sono i familiari a fare domande su come sta andando, altre si ha il dubbio se raccontare o meno, altre ancora si cerca di mantenere del tutto all’oscuro amici e parenti. Quindi: “a chi posso o devo dire che vado dallo psicologo? Cosa posso o non posso dire?” Vediamo le diverse possibilità, partendo dal presupposto che non c’è nessun obbligo, ma come sempre, si fa quello che fa stare meglio.
La terapia è uno spazio privato
La terapia è uno spazio dove si depositano aspetti profondi e importanti di sé e il minimo che si può fare è rispettarli. Il segreto professionale è la prima tutela di tutto ciò che si porta nella stanza del terapeuta, ma non si limita al contenuto di ciò che si dice. Il segreto professionale è una protezione più grande: dal cercare di non far incontrare i pazienti tra una seduta e quella successiva al non rivelare a chi ha fatto da inviante di essere stata contattata o meno. Ma anche definire come gestire incontri occasionali al di fuori della stanza di psicoterapia, laddove è più difficile poter controllare le variabili: un incontro fortuito al supermercato ad esempio.
C’è un’unica matrice dietro queste accortezze, che non corrisponde esclusivamente al segreto professionale. Parlo della libertà individuale di gestire la terapia e ciò che ne consegue (la conoscenza del terapeuta, il fatto di essere in quello studio, di chiamare o non chiamare un terapeuta che è stato consigliato), nel modo che più si sente adatto. Ogni persona può scegliere il grado di privacy che preferisce, per questo ha bisogno di essere tutelato nella riservatezza.
Ognuno sceglie per sé
Come scrivo sempre, ogni storia è differente, non possiamo definire scelte giuste o sbagliate a priori. Stiamo parlando di dire o non dire e se dire, quanto dire, a familiari o amici, se si va dallo psicologo o che cosa si è detto in terapia. Ognuno decide per sé, tenendo in mente il proprio benessere e non “forse dovrei dirlo perché ci tiene” o “voleva tanto sapere cosa ho detto”. Semplificando al massimo: se vado dallo psicologo per stare meglio, questo obiettivo coinvolge anche questa scelta.
Il senso della privacy non è uguale per tutti: c’è chi si sente a proprio agio a condividere aspetti di sé con gli altri, chi meno. Ma non si tratta solo di questo: posso essere una persona molto aperta alla condivisione, ma posso avere un estremo bisogno di uno spazio privato in cui non far entrare nessun altro se non il terapeuta. Posso scegliere di dire di essere in terapia e non aggiungere nulla a questa affermazione, posso raccontare di più, insomma, faccio ciò che sento giusto per me.
L’intrusione
Intrusione è una parola fastidiosa, ma è pertinente perché è ciò che spesso ci si trova a provare quando si torna a casa dopo la seduta e ci si sente chiedere: “com’è andata?”, “hai detto tutto?” “cosa ha detto la psicologa? ci vorrà ancora tanto?”. Se sei un paziente, molto probabilmente sai di cosa sto parlando. Se sei un familiare (marito, compagna, genitore) potresti aver chiesto qualcosa di simile e potresti anche aver avuto delle buone intenzioni, perché sei interessato o preoccupato. Ma queste di domande possono essere vissute come intrusioni profonde e sono molto difficili da gestire. “Pare brutto” dire che non se ne vuole parlare è qualcosa che tanti miei pazienti mi riportano: desiderano tenere per sé ciò che succede in terapia, ma di fronte alle domande dei familiari, non si sentono di comunicare questa scelta.
Non c’è nulla di strano nel non voler raccontare nulla, anzi. La terapia è faticosa, si fronteggiano emozioni e sentimenti a tratti dolorosi, ci si apre a nuove prospettive su di sé. Dopo una seduta spesso si sente la necessità di passare del tempo in solitudine, per far decantare e depositare. Parlarne potrebbe rispostare gli equilibri, non permettere al lavoro di fare il suo corso. Risulta fondamentale rispettare il proprio bisogno di non condividere, così come, dall’altra parte, è importante rispettare questa scelta.
Le conseguenze
Se sei un familiare e sei preoccupato o ti viene da dire: “ma voglio solo sapere se sta andando bene”, capisco il tuo punto di vista e non chiedere della terapia, non vuol dire rinunciare a sapere come sta la persona. Chiedere com’è andata la seduta significa metterla su un piano di performance: non è una gara, una seduta non va bene o male, ma fa parte di un processo in cui avvengono dei cambiamenti. Non si può rispondere a questa domanda. Allo stesso modo, mettere l’accento su un sintomo o sul motivo che ha portato una persona in terapia, è motivo di ansia da prestazione. Oltre alla fatica di star male e di affrontare un percorso terapeutico, un paziente spesso si trova a dover gestire lo stress di chi lo circonda, che chiede “allora è passato? quando guarisci?”.
Spesso questi sono i motivi per cui alcune persone scelgono, a malincuore, di tenere del tutto nascosto il fatto di andare dallo psicologo. L’incomprensione o l’intrusione di chi sta attorno potrebbe essere troppa per l’energia che si ha a disposizione.
Cosa può fare un paziente?
Se hai scelto di andare dallo psicologo o se hai già iniziato un percorso, hai la massima libertà di gestire come senti meglio questo importante passaggio della vita. Puoi confidarlo solo a qualcuno, puoi dirlo a tutti, puoi scegliere di parlare di ciò che ti succede in terapia o solo di qualcosa che ti ha colpito. Puoi dire semplicemente che hai preso questa scelta e niente più. Il senso è di ascoltare ciò che ti fa stare meglio, ma anche ciò che ti fa stare male. Se senti di doverti esporre quando vorresti mantenere la riservatezza ad esempio, ascoltati, fermati e cerca di capire quale scelta, invece, ti corrisponde di più.
Non c’è una regola giusta o perfetta, la terapia insegna ad ascoltarsi e questo può essere un buon argomento da cui partire. Se è difficile capire, se ti senti diviso tra il “dover rispondere” alle domande e il desiderio di tenere per te, puoi confrontarti con il tuo terapeuta. Può essere un buono spunto anche per ragionare su altri aspetti delle relazioni, quindi, perché no?
Cosa può fare un familiare
Se sei un familiare, avrai capito che ti sconsiglio di chiedere com’è andata, quanto ci vuole ancora, oppure chiedere i dettagli di ciò che la persona a cui vuoi bene riporta in terapia. Questo non vuol dire che non puoi chiedere nulla. Se sei interessato o preoccupato, pensa prima di tutto che la persona in questione ha deciso di prendersi cura di sé per cercare di stare meglio. Vuol dire che sta prestando attenzione alla sua salute e non è poco. Se vuoi sapere se puoi fare qualcosa, o semplicemente cosa sta succedendo, c’è un piccola frase molto importante, che non è intrusiva, non la butta sulla performance, non mette l’accento sul problema, anzi, fa sentire all’altro di essere visto e ascoltato: “ciao, come stai?”.